Cosa non devo fare
per togliermi di torno
la mia nemica mente:
ostilità perenne
alla felice colpa di esser quel che sono,
il mio felice niente.
Il mese scorso, dopo la pubblicazione dell’articolo sulla Vita Nova di Dante, alcune lettrici mi hanno manifestato il loro entusiasmo per la bellezza della lirica trecentesca e il loro disappunto nei confronti della poesia contemporanea (“Perché oggi non si scrivono più le belle poesie di un tempo?”).
Io amo da sempre tutta l’arte e la letteratura, da quella classica a quella romantica, dalla lirica trecentesca alla poesia contemporanea. Certo, i tempi mutano e con essi anche l’arte, che è immortale ma non eterna, non ha cioè fine ma ha un inizio, e la nascita è gioco forza all’interno della Storia. Siamo tutti figli dei nostri tempi, insomma, e la letteratura non fa eccezione: non possiamo pretendere che i poeti contemporanei scrivano in terzine dantesche (anche se, in realtà, c’è chi lo fa).
Epperò la sfida mi ha intrigato: esiste ancora, oggi, la bella poesia che abbiamo studiato a scuola? La poesia, cioè, che ci mostri anche i contenuti più ostici e criptici assisi in nuvole d’oro come in carrozze cherubiche?
Così ho scartabellato le numerose raccolte di versi della mia biblioteca e, alla fine, ho scelto a mo’ di esempio Vita meravigliosa di Patrizia Cavalli, poetessa italiana nata a Todi nel 1947. L’ho scelta soprattutto perché rappresenta il contraltare perfetto alla Vita Nova (tra l’altro fin dal titolo possiamo riconoscere un parallelo): da una parte un uomo del Medioevo, figlio della metrica classica e della Scolastica, dall’altra una donna contemporanea, figlia del verso libero e del Postmodernismo.
Basta leggere la quarta di copertina per comprendere l’essenza poetica di Patrizia Cavalli: «Fosse vissuta sei o sette secoli fa, nelle terre umbre dov’è nata, Patrizia Cavalli sarebbe stata senz’altro una delle grandi mistiche di quel periodo. Le sue esatte visioni verbali avrebbero narrato i misteri più sensibili della divinità, e le sue estasi, i suoi terrori e le sue ebbrezze sarebbero stati registrati e trascritti con devozione dai fedeli amici intorno a lei. Nei nostri tempi, invece, Patrizia Cavalli si è proposta il compito, più arduo, di dare parola ai misteri profani di cui tutti facciamo esperienza: all’indicibile nostalgia di settembre, che ogni anno, regolarmente, ci trafigge; al pulsare frenetico della “nemica mente”, quando insegue e controlla ogni lieve mutamento del corpo; alla felicità che scende, come rugiada dal cielo, se una certa luce pomeridiana si mostra all’improvviso. In ogni verso, il ragionare poetico di Patrizia Cavalli non cerca, ma trova. Il suo ardente, ostinato desiderio conoscitivo non chiede altro che arrendersi, infine, dinanzi allo stupore e all’evidenza dell’apparizione poetica. Vita meravigliosa rappresenta una summa della poesia di Patrizia Cavalli, attraverso le ossessioni ricorrenti, i temi e i molteplici registri stilistici che la caratterizzano. Insieme ai molti fulminei epigrammi, comici o filosofici (spesso le due cose insieme), compaiono i monologhi ipocondriaci, quasi teatrali, oltre alle tante poesie d’amore, non prive di ferocia descrittiva, e un breve poemetto, “Con Elsa in Paradiso”, dove la promessa – o la minaccia? – della vita eterna apre al poeta la possibilità terrestre di “abolire, non dico la realtà / ma ogni traccia di verosimiglianza”. Poco importa che il poeta dica sempre ‘io’: quell’io è talmente dilatato, talmente elastico da includere nella sua lingua ogni cosa, purché esista e viva».
La mente, da fedele alleata di Dio, diventa “nemica”, «ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente». Parrebbe quasi nichilista se non fosse così pienamente rivolta verso l’Alto: non è la mente il problema, ma la società contemporanea che ci costringe a nascondere il nostro desiderio di Dio, portandoci a dissociazioni e isterie collettive.
Lo psichiatra olandese J. Van den Berg ha condotto uno studio interessante, arrivando alla conclusione che «le turbe nevrotiche non si incontravano in Europa prima del XVIII secolo. Prima del 1733 non c’è libro di medicina che parli di nevrosi. Ora, se fossero esistite, sarebbero state facilmente individuate anche da un medico generico. Anche una persona non qualificata avrebbe potuto rimarcarle senza difficoltà. Ma non se ne trova traccia. Certo, non mancano persone complicate o bizzarre. I personaggi dell’Amleto di Shakespeare e certi personaggi di Molière presentano una grande complessità. Ma un uomo il cui carattere e la cui psicologia sono relativamente complicati non è un nevrotico».
L’Arcivescovo di Malines-Bruxelles GodfriedDanneels, nel suo trattato Fede cristiana e ferite dell’uomo contemporaneo, scrive, a proposito: «A partire da questo periodo la situazione cambia completamente. Nevrosi e malattie psichiche invadono la nostra società come un’epidemia; tutto il mondo ne parla; la loro assistenza medica è diventata un gravame pesante per la società occidentale. Qualcosa è dunque cambiato. Ma che cosa? Ecco un’ipotesi. Prima del XVIII secolo, l’uomo europeo viveva in un universo armonioso, posto all’interno di una rete di relazioni ben integrate. La relazione con Dio, con l’universo, col cosmo, i suoi rapporti con gli uomini e la società, con se stesso, erano ben definiti. Ogni cosa aveva il suo posto e c’era un posto per ogni cosa. Si era stabilito un solido quadro di riferimento e la religione ne era il cemento. A partire dal XVIII secolo le cose sono cambiate». In tre parole: nasce la Modernità.
E così, come scrive soavemente Patrizia Cavalli, corriamo il rischio di ritrovarci immersi in un’umanità che parla da sola, con la disattesa speranza di essere ascoltata:
Parla a se stesso il pazzo e si consola
e il santo parla solitario a Dio.
E io a chi parlo quando parlo da sola?
Parlo a qualcuno che non sono io
ma una platea vista di sbieco al volo,
mutevole a seconda del mio tono,
che non risponde mai, ascolta solo,
se la parola trova il giusto suono.
Questa muta assemblea inconcludente
che non fa petizioni, non si ostina
a voler controbattere e opinare,
mi anima di speranze la mattina:
avere un tale dono della mente,
poter parlare, e farsi anche ascoltare!
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