Tutte le domeniche, nella mia chiesa, come in tutte le chiese di ogni dove, che sia un villaggio in centro Africa o una cattedrale in una metropoli come New York o tra i ghiacci nel villaggio Inuit sul pack, quando il sacerdote ha terminato di leggere il vangelo, nessuno si meraviglia, è scontato che ci sia la predica o l’omelia.
Questo è anche il momento in cui un fremito attraversa la schiena dei fedeli presenti: “Spero di non abbioccarmi”, oppure “Mò devo sciropparmi l’ennesima filippica contro l’ultimo avvenimento nel mondo che non è di suo (dell’officiante) gradimento”. Il terzo pensiero, se riesci a non fermarti agli altri due, è:“Riuscirò a portare a casa qualcosa che mi arricchisca spiritualmente?”. Mi rendo conto però che quello che io derivo da una omelia è tutto fruttodell’attenzione, della persistenza e della tensione di ascolto; cioè … farina del mio sacco. La capacità di coinvolgere una assemblea e toccarla nel profondo, invece, è un dono. C’è chi questo dono ce l’ha innato e chi no.
Attenzione questa dote non è da confondere con oratoria e capacità scenica: queste sono capacità che si possono imparare, insomma artisti si può anche diventare. Ma non è il caso che tali capacità siano praticate in una omelia che suonerebbe come un cembalo rotto!
La preparazione è fondamentale come sempre nella vita; molti preti affrontano seriamente questo momento: si documentano consultando testi, su cui si soffermano a riflettere, prendono spunti dagli esegeti e interrogano se stessi… Per altri invece, arrivati di corsa all’ultimo minuto, è evidente che si affidano alle conoscenze derivanti dai loro studi in seminario o pratica di “servizio” e imbastiscono un commento affrettato.
Eppoi nella predicazione entrano, volenti o nolenti, elementi di carattere personale. Il prete conosce la sua gente e i fedeli conoscono lui, l’uomo con le sue fragilità o fortezze, con il proprio carattere, la sua timidezza o sicurezza, umiltà od ostentazione. Inutile dire che una omelia preparata con cura si vede e si gusta. C’è tutta l’assemblea che segue … il sacerdote riesce a percepire l’attenzione dei suoi fedeli sin dai primissimi istanti e a determinare il successo dell’ascolto. Non credo che il celebrante possa permettersi il lusso di buttare via un’occasione di incontrare le persone. Ne va anche del rispetto degli stessi preti e del loro servizio pastorale alla comunità. Quello che spesso i preti più sciatti nella preparazione della predica perdono di vista è che il tempo che stiamo vivendo, attraversa una stagione in cui la comunicazione è fondamentale. In questo mondo multimediale, strapieno di stimoli culturali e multiformi, è come se tutti avessero un telecomando nel cranio e se chi sta parlando non cattura l’interesse entro i primi due minuti, il personaggio in questione è sconnesso è fuori gioco, perché chi stava ascoltando … è già su un altro programma. Perciò in questo villaggio sovrabbondante di immagini e parole, bisogna essere capaci di catturare l’attenzione. E a nulla vale pensare che la gente per il solo fatto di essere in chiesa e partecipare alla liturgia della Parola penda dalle labbra del prete. Se non è stato catturato da un interesse creato da chi parla, sta già pensando a cosa mangerà a pranzo o chi verrà a cena. E addio predica! Attenzione: si perde contatto anche quando si vuole trasformare l’omelia in uno show, con al centro una star. Addio predica!
Certo anche qui occorre la giusta misura e un mix di tutti gli ingredienti di cui si è detto.
C’è a chi piace un’omelia letta. Di sicuro è segno di preparazione, attenzione ai particolari e “professionalità”, ma … se i fogli sono tenuti davanti a mo’ di paravento che nasconde il viso e la voce staccata dal microfono viene dall’oltretomba … addio attenzione, così come diventa addirittura insopportabile quando è una lettura piatta e monotona. Beh, lascio a voi i commenti.
Io, che non sono più giovanissimo, ricordo le omelie di un grande predicatore dei miei tempi: il cardinale di Milano Carlo Maria Martini. Aveva una stupenda capacità di guidare e coinvolgere le persone. Ogni omelia era strutturata, articolata in modo che non perdesse mai fluidità, spontaneità ed efficacia. Padre Carlo Maria, a partire dall’inizio, costruiva il cammino di avvicinamento alla Parola, con il quale prendeva per mano il fedele e lo accompagnava passo passo per portarlo al cuore della Parola. Egli non usava argomentazione complesse o cervellotiche, ma esprimeva concetti alla portata di tutti, riuscendo a mettere in luce spessore e valore del brano. Si arrivava alla fine con estrema riluttanza a voler terminare. In passato, trovavo analogie nelle lectio che ho seguito con padre Fausti. Ma erano incontri più lunghi ed articolati … forse non proprio omelie e poi … entrambi gli uomini avevano una caratteristica in comune: erano Gesuiti.
Vorrà dire qualcosa?
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