Di Bruce Marshall
Iniziamo col dire che Bruce Marshall (1899-1987) è un grande scrittore, e che non ha avuto l’attenzione che merita da parte della critica solamente perché per l’intellighenzia stava dalla parte sbagliata della barricata. Pochi come lui riescono a creare ambientazioni capaci di immergere pienamente il lettore nella storia, grazie a descrizioni e dialoghi che dovrebbero essere studiati in tutte le università di Lettere.
Nato a Edimburgo alla fine del Diciannovesimo secolo, frequenta il Trinity College e si laurea in Economia. Durante la Prima Guerra Mondiale, ancora giovanissimo, combatte in prima linea venendo ferito gravemente e perdendo una gamba in battaglia. Nel 1917 si converte al Cattolicesimo. Solamente dopo la Seconda Guerra Mondiale i suoi romanzi riscuotono il giusto successo e gli consentono di abbandonare il lavoro da ragioniere per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno.
Il miracolo di padre Malachia, pubblicato nel 1931, è a mio parere la sua opera più rappresentativa, in quanto racchiude tutte le tematiche care all’autore in un unico testo: è una sorta di summa della poetica del Nostro.
La trama è semplicissima, che più semplice non si può: il vecchio padre benedettino Malachia Murdoch, che vive nel monastero scozzese di Fort William, viene mandato dall’abate a Edimburgo per insegnare il canto gregoriano ai giovani preti della chiesa di Santa Margherita. Quello che davvero porta avanti la trama sono i dialoghi con il reverendo padre della parrocchia e con il rappresentante della chiesa protestante episcopale, che si trova proprio di fronte a quella di Santa Margherita. È soprattutto qui – nei dialoghi – che Bruce Marshall «è solito cimentarsi con stile contro pesanti contraddizioni di una società che si va allontanando sempre più, e sempre meno coscientemente, dalle basi di una mentalità cristiana, senza però risparmiare i lati angusti e cedevoli dello stesso mondo cattolico, e in particolare del clero» (nota dell’editore nell’edizione Jaca Book).
E poi, a un certo punto del romanzo, arriva il miracolo preannunciato dal titolo: ma qui mi fermo per non togliere la sorpresa al lettore.
Il punto di vista scelto dall’autore è quello di Padre Malachia: noi vediamo tutto quello che accade con gli occhi e con la mente del vecchio monaco. Scopriamo così fin da subito la sua assoluta fedeltà alla Regola benedettina e ai principi cristiani, ma anche le difficoltà che incontra ogni giorno per attuarli, come durante il viaggio in treno da Fort William a Edimburgo: «Era impossibile, disse a se stesso con un amaro sorrisetto mentale, pensare in maniera conveniente al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo che da Essi procede, avendo di fronte quella faccia rossa e quella donnetta aguzza e curiosa che andava disponendo i suoi pacchetti qua e là e dappertutto. Com’era difficile, quaggiù sulla terra e col continuo assedio del materiale e del temporale che urgono intorno allo spirituale e all’eterno, com’era difficile amare il prossimo, eppure com’era necessario». Il sempiterno problema esistenziale del buon cristiano, insomma: vivere nel mondo senza essere del mondo.
Padre Malachia, «col suo cappello nero tutto liso e il suo abito consunto, sembrava uno dei tanti preti incolori e inoffensivi che si possono incontrare in qualsiasi città del mondo. Ma, dentro, la sua mente era tutta tinta d’oro e di rosa, poiché si era abbandonata alle abituali meditazioni sull’Amore di Nostro Signore». Non tutti i preti, però, sono come lui, e il protagonista si trova ad affrontare le invidie e le crudeltà dei suoi colleghi, tanto da dover ricorrere alla sua forza d’animo per non commettere lo stesso peccato: «Rammentò in tempo che la Regola gli comandava di essere misericordioso anche con chi non lo era, e non disse nulla». Certo, non senza rammarico: «Era infinitamente triste, pensò padre Malachia, che neppure i sacerdoti destinati a insegnare le stesse verità riuscissero ad amarsi e a comprendersi tra loro. Ogni anima umana era in definitiva sola e isolata, affidata soltanto alle cure di Dio. Gli uomini parlavano di nazioni e di coscienza collettiva, ma in realtà non esisteva nulla di simile; esistevano soltanto le singole anime concepite dal Padre e indirizzate dal Figlio, tutte pronte a considerarsi parti essenziali di qualcosa più grande di loro, ma tutte, ad eccezione della Trinità e della gerarchia del Cielo, tutte ridicolmente, spaventosamente sole».
È l’eterno dilemma di come rendere la Chiesa più moderna, di come avvicinare le nuove generazioni alle verità cattoliche. Quello che scriveva Marshall per bocca del reverendo Humphrey Hamilton quasi cento anni fa non è poi così distante da quello che dicono molti preti oggi: «Non vi sembra, mio caro padre, che in questi tempi, con la necessità di conquistare e conservare il controllo dei giovani, si debbano usare metodi nuovi per costringerli a venire a noi? Non vi sembra che noi dobbiamo allineare la religione col pensiero moderno?».
Padre Malachia non ha dubbi nella risposta: «I monaci pensano che la religione cristiana, essendo vera oggi come era vera quando fu affidata alle cure degli apostoli, non può essere migliorata o resa più vera, giacché la verità, al pari di Dio, è eterna. […] Il vostro punto di vista, signore, riduce all’assurdo se stesso e tutti gli altri punti di vista. E quando dite che ciascuno di noi ha il diritto di tenersi le proprie convinzioni, voi intendete dire che noi abbiamo il diritto di essere convinti di una sola cosa: che le nostre convinzioni sono giuste ed esatte in modo assoluto ed esclusivo. I punti di vista in materia di teologia sono altrettanto idioti quanto i punti di vista in fatto di matematica».
Così come due più due non può fare cinque, anche la teologia fondamentale non può essere aggiustata a proprio gusto. E padre Malachia, da buon benedettino, dopo aver analizzato il problema della deriva modernista, ne indica la soluzione: «Prendete San Tommaso d’Aquino. Prendete la sua Summa. Chiunque può trovare in questo libro la risposta a ogni cosiddetto problema moderno. La gente sembra convinta che dubbi e difficoltà siano scoperte di oggi. San Tommaso d’Aquino non ne ignorava nessuno, e a tutti ha dato risposta nel secolo tredicesimo. Ciò che conta è la vera, la fredda realtà cattolica».
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